Mauro F. Minervino, Chi vive in Calabria / Chi ha scarsa memoria. Viaggio a Sud

Perdo molto del mio tempo in macchina. Guido e giro da anni sulle strade di questa regione, e anche oltre. Macino kilometri ogni santo giorno. Lo faccio per star dietro al mio lavoro, per capire come cambiano i luoghi, per incontrare le persone, per osservare certe posture, le espressioni degli sconosciuti, le facce della mia gente. I finestrini di un’auto stanno più o meno alla stessa altezza dell’obbiettivo montato sul carrello-camera del cinema. Il mondo scorre ai lati. Guardi e non sei guardato. 




Guido anche per ruminare sensazioni e ricordi, per pensare in pace ai fatti miei. Strade e superstrade, città provinciali, paesi, spiagge, montagne, suburbi non finiti, centri commerciali, stazioni di servizio, semafori e incroci, intervalli opachi e senza nome, cantieri, palazzi, altre strade. La Calabria è una materia liquefatta, in rotazione continua, in cui tutto è sempre più mobile, esterno, instabile, sottosopra. Giorni fa ero in macchina da solo. In macchina si pensa meglio. I ricordi incontrano le occasioni filate dalla strada, arrivano da soli a getti involontari. Ad un certo punto della strada i miei pensieri si interrompono. Ecco, pure qua, mi sono detto. Te ne accorgi così. Siamo in città, Cosenza, una qualsiasi strada laterale, imboccata distrattamente in mezzo un’ansa dei palazzoni del centro, neanche troppo trafficata. I soliti idioti: dichiaro tutta la mia insofferenza per gli odiosi cordoli stradali. Li hanno messi ovunque, rastremati, in linea o di traverso. Quelle grosse verruche di plastica gialla, quegli stupidi binari di gomma scivolosa. Intralci. Arrivano sotto le ruote senza avviso, come la carcassa di un cane sbandato che taglia la corsia.
Sobbalzi, frenate brusche, stridori e rumoracci, scarti del traffico, tampona- menti, bestemmie. Creano più pericoli che ordine. Io che rispetto i limiti e il codice della strada, ho sempre pensato che i dossi artificiali siano l’espressione stradale di una mentalità anticivica, illiberale e repressiva. Una segna- letica brutale, da vecchio regime sovietico, che ti obbliga a stare su una porzione di carreggiata sollevata e resa sconnessa apposta per rallentare il traffico. Cioè per renderti la vita più difficile. Adesso i cordoli, come le ro- tonde, spuntano a sproposito, pure dove non servono. Ogni strada è un percorso a ostacoli. Sarà un altro dei business marci di malaffare venuto di moda in questa regione dove niente serve per il suo scopo e nulla è come appare. Per il resto normalmente le vie di comunicazione della Calabria, dalle strade comunali all’autostrada, sembrano accuratamente bombardate, i crateri sulla crosta della luna. E poi che senso hanno i dossi artificiali a Catanzaro, nel centro asfissiato di Catanzaro, la città più paralitica e rallentata di auto del mondo? E i cordoli a Rende sulle rampe che portano all’Università sempre incasinata di traffico? E i dissuasori piazzati nelle stradine anguste, tra le marine e nei centri storici come Paola, Amantea, Scalea, dove le macchine vanno per forza a passo d’uomo o si incastrano a malapena nei vicoli? Ho visto che in certi posti qualcuno li taglia, divelle i longheroni di gomma e ci fa uno spazio in mezzo giusto per le ruote. Io davanti ai cordoli ho un conato di sensazioni primordiali, reazioni pavloviane, ribellioni istintive e claustro- fobiche. Le sospensioni della mia auto appena le sfiorano scalciano come un mulo. Mi viene di saltarci sopra, di accelerare con rabbia per superarli di scatto. Evocano le strettoie per gli animali istradati al macello, i corridoi disperati dei penitenziari e dei reclusori, i recinti dei campi di concentramento. Benché provengano dagli Usa, il paese dei grandi spazi liberi. È l’America che ha sviluppato l’automobile, il mezzo di trasporto individuale che identifica la libertà, il posto dove li hanno inventati, dove sono in uso da decenni. Lì i dossi si chiamano “bump”. “Bumpside” o solo “Bump”, “scassone”, deriva dal nomignolo slang usato per il camioncino Ford F-series, un pick-up combinato, cabinato più cassone da una tonnellata e mezza in produzione dal 1967 al 1972. Il “Bump” Ford F-series, prodotto fin dal 1948 e poi copiato da tutti i costruttori, è ancora oggi, in versioni costantemente rinnovate dal colosso automobilistico di Detroit, il veicolo a quattro ruote più venduto negli USA. È anche una delle dieci auto che hanno fatto la storia del cinema. È l’incon- fondibile sagoma del pick-up ammaccato e rugginoso degli “on the road movie” ambientati tra le statali infinite e le piste coperte di polvere, piene di sobbalzi e trasalimenti dell’America rurale. Uno di quei mezzi di lavoro de- mocratici che portano in giro vittime e avventurieri, innamorati e fuggiaschi, i cow boy e le pin up, gli spostati dalle nevrosi nascoste e i killer seriali covati nella pancia sconfortata della provincia americana. Sono i bump caracollanti sulle piste dei film vecchie glorie dell’american life, fino ai pick-up truccati da gara di Fast and Furious, passando per le nostalgie di American Graffiti e per i racconti raggelanti di Trilobiti di Breece D’J Pancake. Sempre lo stesso camioncino in fuga dagli orrori della vita o lanciato con i suoi occupanti alla rincorsa disperata di un orizzonte di libertà, con una felicità che sembra sul punto di esser colta ma che si sottrae continuamente alla vista. “Vivo la mia vita ad un quarto di miglio alla volta. Non mi importa di niente. Per quei dieci secondi io sono libero!”. Sul grande schermo è il camioncino che in forme mutate vediamo correre o arrancare nelle scene di film tra i più vari, come Starman, Mosquito Coast, L’uomo dei sogni, fino ai più recenti Transfor- mers, Kill Bill di Tarantino, American Life di Sam Mendes o il recentissimo This Must be the Place di Paolo Sorrentino. Bump nello slang americano si- gnifica più sensatamente “bolla, brufolo, vescica”, ma anche scossone, con- traccolpo, botta (con allusione sessuale), e pure l’autoscontro del luna park porta il nome di “Bump my”, tamponami. Bump è anche la dose da sballo di una sostanza illegale, e nel gergo lavorativo pure la rimozione dal posto, l’as- segnazione coatta ad un altro lavoro o la cancellazione da una lista. Per noi che abbiamo smarrito la giusta via tra le strettoie meridiane della nostra regione vampirizzata dal cemento, i bump veri, quelli attaccati sull’asfalto da amministratori zelanti di comuni e città superabusive sfiancate da ogni sorta di caos e di subbuglio, dovrebbero servire quasi da cordone sanitario. Un correttorio steso sulla strada. 


Argini di gomma messi lì a dissuaderci (da cosa?), a disciplinarci per renderci almeno in automobile cittadini modello. Al massimo servono ad annullare dentro corsie obbligate ogni residua illusione di libertà e individualismo alla guida di un mezzo sulla strada. In nome delle file, ovvero del deflusso ordinato, di un’illusione di disciplina civica contrabbandata in nome dell’omologazione di massa, mentale e comporta- mentale. Il resto amen, il solito groviglio indigesto e mostruoso che ci circonda. Insomma i dossi, i dissuasori, i cordoli, i bump di tutti i generi, non sono innocenti frangenti di gomma. Anche quando guido giorno dopo giorno sulle strade rovinose della mia terra depredata avverto l’allarmante sensazione di essere in ostaggio di una società di regole futili e finte, inutilmente irta di trabocchetti, prescrizioni, divieti, impedimenti, obblighi, misure sempre più ottuse e coercitive. Finalizzate tutt’al più a trasformarci in obbedienti corsisti, in replicanti automi del traffico in fila indiana nelle nostre scatolette di latta. Ma il fatto è che i bump valgono solo per noi, esseri comuni, uomini-massa, pendolari e forzati dell’autotrasporto e degli ingorghi. E solo noi e le nostre vite già affannate, pericolanti e anguste, rallentano, incolonnano, dissuadono, deviano. I cordoli non fanno recedere le auto blu, non moderano i sorpassi prepotenti dei cortei delle caste e i grossi suv delle mafie locali. Non arginano la monotonia del paesaggio, il dilagare degli abusi, il malaffare, la noia. Quando entro in una di queste strettoie cordonate in giro per la Calabra, mi sento come in certi film della peggiore immaginazione futurologica. Un omino che guida al rallentatore tra le arterie strettamente sorvegliate di un’altra Farheneit 451, il personaggio orwelliano di un 1984 più imprudente e scalcinato. Peggio, un figurante oppresso tra la folla intruppata e i cascami stradali di una Metropolis di Fritz Lang sgarruppata e virata in bruttissima copia. È una dura lotta per sopravvivere e spostarsi nel casino babelico del sistema viario pieno di groppe, di trabocchetti, di buche, di pericoli mal av- visati, di raccordi sviati, di strade stritolate e perse nel nulla cresciuto a casaccio nelle contrade sottosopra di questa Calabria post-tutto, compendio di tutti i rottami e dello sfascio dedalico del sud nostrano. Io ogni volta che li vedo quei maledetti cordoli accelero e mi ci avvento sopra. Sobbalzo alla grande. Ho deciso che la prossima macchina che mi compro sarà uno di quei “bump”, il camioncino dei film americani.

Libreria DOPPIOZERO 

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