Ercole Giap Parini: La luce di Lisbona
Lisbona, 7 marzo 2014
Ho visto
la luce di Lisbona. Dopo quattro anni.
Lisbona è
la città della luce; si trova scritto anche nelle guide turistiche. Potrebbe sembrare
un'espressione senza importanza, buttata giù poco più che per caso da un
annoiato estensore alla ricerca di una facile immagine. E che poi viene
ripetuta di bocca in bocca con la pigrizia che rifiuta di affrontare altre
etichette.
Invece, la
luce di Lisbona è un’esperienza concreta, solida. È dotata di peso. Ne fai
esperienza soprattutto se vi arrivi da lontano e non ti capacita, in una
mattina come questa, del cielo sgombro di nuvole. Vana ricerca di occhiali da
sole che non hai portato con te.
Dapprima ti
infastidisce perché colpisce con il suo peso: s’ammassa bianca contro gli
occhi, appena velata di azzurro nel primo abbacinare. Esperienza che strazia le
pupille, le dilata: non vi è nulla del cartolinesco, rassicurante vermiglio dei
tramonti mediterranei.
La luce di
Lisbona viene da sopra, viene da sotto.
Avvolge ogni cosa. Avvolge il tuo corpo; una volta dentro, però, fiera
grida agli occhi che non c’è che lei. E ti rendi conto, sommessamente perché un
poco te ne vergogni, che per la prima volta hai visto la luce.
È anche
esperienza sonora la luce di Lisbona. Viene giù direttamente dal sole e, con un
sibilo di meteora, manda in frantumi tutti i filtri. Poi rimbalza, col rumore
che senti, sulle pietre bianche delle strade imperiali e ne pizzica le corde del
candore per farlo cantare possente.
Lo fa
persino d’inverno, in una giornata come questa: il vento accarezza la distesa
d’acqua ambigua, il Tago che diventa mare; passa sotto il ponte 25 de Abril, si alza sulle pietre della
grande Praça do Comércio e arriva al castello di São
Jorge. Oggi lo fa per tenere pulito il cielo. Oggi lo fa perché la luce di
Lisbona ti accechi sonora e possente.
(cfr., in questo stesso blog, L'ambiguità dell'acqua, post del 5 maggio 2014)
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