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"C’è una storia, tramandata dalla mistica ebraica dei chassidìm, che è un buon esempio della sua etica della povertà e della sua fede nell’inizio. La cito come me la ricordo, l’ho letta molti anni fa.
C’era una volta una generazione di chassidìm che, quando dovevano assolvere un compito difficile, o prendere una decisione importante, andavano in un luogo nei boschi, accendevano il fuoco e dicevano delle preghiere, assorti nella meditazione. Un chassidìm della generazione successiva, di fronte alle stesse incombenze, andava nello stesso posto nel bosco e diceva: “Non possiamo più accendere il fuoco, ma possiamo dire le preghiere”, e questo era sufficiente. Ancora una generazione dopo, un altro chassidìm che doveva assolvere lo stesso compito, andava nel posto e diceva: “Non possiamo più accendere il fuoco, e non conosciamo più le segrete preghiere, ma conosciamo il luogo dove tutto questo accadeva”, e infatti bastava. Finché, in un’altra successiva generazione, dovendo affrontare lo stesso compito, il chassidìm restava seduto nel proprio castello, e diceva: “Non possiamo più fare il fuoco, non possiamo dire le preghiere, e non conosciamo più il posto nel bosco, ma di tutto questo possiamo raccontare la storia”. E infatti bastò, il suo racconto ebbe la stessa efficacia delle altre azioni. "


da: fino all'inizio del mondo



Il linguaggio comune di solito chiama profetico lo sguardo acuto di chi coglie in germe i segni presenti, il dono dell’attenzione che anticipa lo svolgersi futuro del mondo. Come vedere la fine dei luoghi, dell’appartenenza, forse dell’abitare, la liquidazione delle identità legate al territorio. Soprattutto la fine della capacità di vedere. La cecità è oggi un dato comune. Ma da quanto tempo? Che la gente non sapesse più vedere niente era già chiaro a Luigi quando usciva di casa e fotografava lì intorno, o faceva centinaia di chilometri in auto allo stesso scopo. Ed è tutt’altro che strano che nelle chiacchiere d’attualità si parli tanto di luoghi. La regola è che si parli di ciò che non c’è più, come il paesaggio. Luigi parlava di ciò che non c’è ancora.
All’epoca della sua profezia, ma si potrebbe dire della sua fantascienza, io vedevo in Luigi Ghirri, che accompagnavo a volte nei suoi viaggi terrestri, l’esempio più solido dell’appartenenza. Del resto non si paragonava con gli amici a una cipolla, talmente era legato alla terra? Viaggiava di continuo, ma si diceva pigro. Di fianco a lui mi sentivo sempre un viandante. E la definizione di viandante è la stessa dell’esperto di illusioni: provare nostalgia anche a casa. Io provavo nostalgia per il senso di appartenenza di Luigi.
Oggi queste differenze mi sembrano molto sfumate. E’ una delle sue “profezie” avere colto la fine del luogo come fine dell’esperienza del luogo. Avere visto la trasformazione del mondo in un’immensa ininterrotta periferia cosparsa di detriti. L’uso è condivisione. L’uso comune delle cose è ciò che ci separa dalla sfera del sacro, che è la separazione stessa, e che a suo modo è un altro uso. Oggi che del luogo non c’è più uso né condivisione, al limite solo abuso e complicità, e le nostre identità sono sparse in una miriade di non appartenenze, per un artista si tratta, come già in altre epoche, di rappresentare l’irrappresentabile. E mi accorgo che il fotografo concettuale Luigi Ghirri aveva già più volte inaugurato questa soglia.
L’autore di Atlante, di Still life, delle Nuvole, il visitatore incantato dell’atelier di Morandi e delle geometrie di Versailles, non nutriva nessuna illusione quanto al destino dell’appartenenza. Il cantore delle mappe del Mondo sapeva, come pochi altri artisti contemporanei, che oltre la sua cancellazione il mondo è un immenso territorio estetico da disegnare come una tela; che oltre l’oblio che lo ricopre esso chiama un nuovo guardare e un nuovo abitare; e che la periferia, come l'immaginazione, ha propri percorsi, verità e bellezze interstiziali. Quando alla fine degli anni ‘80 gli venne commissionato un lavoro di descrizione del territorio per Real World (progetto di Peter Gabriel di World Music), lavorava già sulla cancellazione del paesaggio -la trasformazione della realtà in un reality, slegata cioè da ogni dinamica naturale. Ma per Luigi, come per i veri maestri, non esiste materiale sterile. Non esiste nemmeno una non-natura.
C’è una storia, tramandata dalla mistica ebraica dei chassidìm, che è un buon esempio della sua etica della povertà e della sua fede nell’inizio. La cito come me la ricordo, l’ho letta molti anni fa.
C’era una volta una generazione di chassidìm che, quando dovevano assolvere un compito difficile, o prendere una decisione importante, andavano in un luogo nei boschi, accendevano il fuoco e dicevano delle preghiere, assorti nella meditazione. Un chassidìm della generazione successiva, di fronte alle stesse incombenze, andava nello stesso posto nel bosco e diceva: “Non possiamo più accendere il fuoco, ma possiamo dire le preghiere”, e questo era sufficiente. Ancora una generazione dopo, un altro chassidìm che doveva assolvere lo stesso compito, andava nel posto e diceva: “Non possiamo più accendere il fuoco, e non conosciamo più le segrete preghiere, ma conosciamo il luogo dove tutto questo accadeva”, e infatti bastava. Finché, in un’altra successiva generazione, dovendo affrontare lo stesso compito, il chassidìm restava seduto nel proprio castello, e diceva: “Non possiamo più fare il fuoco, non possiamo dire le preghiere, e non conosciamo più il posto nel bosco, ma di tutto questo possiamo raccontare la storia”. E infatti bastò, il suo racconto ebbe la stessa efficacia delle altre azioni.
L'ultima foto di Luigi Ghirri era un passo in più per ricominciare da capo a tradurre il mondo, anche nella sua assenza di forma. Sì, dopo l’esplorazione dello studio di Giorgio Morandi c’era il desiderio di tornare a casa, nell’intimità di un privato condiviso, per poi ritornare là fuori, disvelare nuovi modi di guardare il mondo, nel gesto liturgico di fotografare per ripulirlo, perdonarlo, benedirlo. Insomma abitarlo.
La sua ultima foto è un andarsene nella nebbia e nella cancellazione che dissolve anche il bordo dell’immagine rettangolare, si perde nel bianco della carta, nel mormorio del fuori campo, dissolvendo limiti e confini. Uno sparire luminoso, un sentiero di luce accanto e dentro la terra arata, scura e invernale, una via lattea che appartiene e pertiene alla terra madre – la terra, questa sì, mondializzata e mondiale, quella della decrescita e dell’ecologia, la terra dell’essere-umani-sulla-Terra. Sparire come viatico, viaggio iniziatico, semplice e leggero; viaggio nel futuro, nell’infinito, lieve come una canzone di Bob Dylan, come l’invito a non avere paura, andare, lasciarsi andare. Passi leggeri come nuvole.
Quando anni fa sognavo di accompagnare Luigi nelle sue ultime fotografie sul bianco e il nulla, fatte a due passi da casa, vicino alla via Emilia, pensavo forse qualcosa di romantico. Forse il qui, il più vicino, il questo delle cose e dei luoghi - mi dicevo - coincide con ciò che ci appare più distante e inaccessibile, come l’idea dell’infinito e del nulla. Così come lui fotografava non solo cose e luoghi ma il vedere stesso – il puro vedere che esiste anche dove non c’è nulla di visibile, aspirando magari a non vedere più niente, o niente di speciale - allo stesso modo avrei desiderato, col suo esempio, avvicinarmi a dire quella “pura lingua”, o pura prosa, trasparente a se stessa, che è stato il mio vero desiderio: utopia del non avere beatamente (più) nulla da dire, o, come ha scritto un filosofo, dire e parlare una lingua che sia “come la lingua degli uccelli e dei nati di domenica”. Anche senza avere bisogno, per esprimersi, di ricorrere a “gesti, salti, grida di meraviglia e d’orrore, latrati o chiurli d’animali”, oppure ad oggetti estratti a caso dalla bisaccia, “piume di struzzo, cerbottane e quarzi” - come il Marco Polo delle Città invisibili - avrei però volentieri condiviso con Luigi quell’altro brano di Calvino, quasi una fragile allegoria dell’umano bisogno di un narratore di luoghi: “Nella vita degli imperatori c’è un momento, che segue all’orgoglio per l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato, alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e a comprenderli; un senso come di vuoto che ci prende una sera con l'odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri...”
E forse, aggiungevo, a quella pura lingua, o pura prosa, ci avviciniamo a volte nel silenzio: quando ci accorgiamo, nel piacere di stare semplicemente nel mondo, di uno stato di consapevolezza la cui descrizione sarebbe un puro elenco delle cose di cui siamo coscienti, ivi compreso il nostro corpo e il respiro, il dentro e il fuori, il visibile, l’udibile, il tattile, l’odorabile. Quando proviamo una di quelle peak experiences che solo impropriamente vengono dette trascendentali, perché in effetti in esse si sente, si sperimenta con esattezza, un perfetto e semplice coincidere di immanenza e trascendenza, anzi di imminenza. “La nostalgia più profonda, ha scritto un altro filosofo - Lukàcs giovane, quando era “mistico” e innamorato - non è altro che l’aspirazione che il mondo così com’è (o: “quale che sia”) sia Uno”.
“La natura non è fotografabile, ci vuole sempre un elemento umano” (Luigi Ghirri). Eppure, come William Turner, Luigi era scandalosamente attratto dal vuoto, dallo spazio senza le persone, o da cui le persone sono andate via. La traccia dell’umano è nel mirino del fotografo, “l’omino sul ciglio del burrone”, diceva. E bastano le tracce che la gente lascia quando se ne va; perfino le tracce che si lasciano quando si cancellano le proprie tracce.
Ora, nessuno come Luigi ha insegnato che ogni luogo è un luogo, degno di attenzione, di non disprezzo (e “luogo”, in ebraico Hamakom, è uno dei tanti nomi di Dio). Il luogo dell’ultima foto c’è, nessun dubbio, come c’è ancora – mi scuso dell’estremismo dell’esempio – il luogo dell’epifania negativa filmata da Claude Lanzmann nel suo celebre Shoah. C’è un fotogramma del film che resta a lungo immobile, quello di uno spazio, un campo vuoto nella campagna di Auschwitz. Il testimone tardivo lo filma, lo guarda, lo mostra, lo fissa: c’è un rettangolo di terra in rilievo, una striscia verticale più scura al centro dell’immagine, una dead line, linea d’ombra, alberi indistinti sullo sfondo, e una striscia orizzontale di cielo. Sulla terra, in basso, delle parole sovrimpresse all’immagine fissa, come nella voce off: “Non riesco a credere che sono qui. Era sempre così tranquillo, qui. Anche quando si bruciavano ogni giorno duemila persone era così tranquillo”.
Tranne la somiglianza geometrica dell’immagine, tranne l’appartenere alla stessa Terra, nelle foto di Luigi non c’è mai fine del mondo, ma punti di partenza. Nessun lutto, ma un procedere verso l’inizio del mondo, la sua alba. Una sensuale, acquatica e terrestre Origine du monde. L’immagine più spoglia e sublime, più ascetica e informe, più ribelle ai canoni, può rinunciare a tutto, ma non al vuoto silenzioso, il vuoto riempito di luce.
Ho una predilezione per le immagini sfumate, cancellate, fantasmatiche, ectoplasmiche – come la frontalità di un volto, che si oppone alla violenza del ritratto in virtù del suo disfacimento, volto irriconoscibile che ci guarda, ci riguarda. Se lutto e rappresentazione sono in fondo sinonimi, Luigi ha sempre abitato lo stupore dell’evento, l’eterna scoperta dell’alterità e dell’infinito, cioè il sublime. Sublime, nell’arte, vuol dire non rappresentare, ma far coincidere un’immagine con un concetto, rendere visibile che vi sia qualcosa che può essere concepito e al tempo stesso non può essere visto, né reso visibile. Luigi guardava le cose i luoghi come se fossero volti.
Resta che l’armonia delle sue immagini, - che si situano pressappoco nella sezione aurea tra il Monaco di fronte al mare di Caspar David Friedrich (1809) e Green on Blue (1956) di Mark Rothko - la loro coerenza o felicità (come si dice appunto per la sezione aurea), si concilia magicamente anche con l’assenza di forma.
A line made by walking, del 1967, è un’opera di Richard Long che mi viene ora in mente. La vado a cercare: si vede una linea di luce che percorre un prato, un campo d’erba, fino a degli alberi in fondo. Arte del camminare: quella linea luminosa, quello shining di stella spenta che emerge dalla fotografia dell’opera di Richard Long è fatta dai suoi passi ostinati: lui ha camminato per tutti gli uomini (si può, si deve camminare dopo Auschwitz). Arte della traccia, quella linea di luce fatta dal cammino dell’uomo taglia verticalmente l’immagine al suo centro, decostruisce il quadro e va verso l’infinito. A meno che non sia l’inverso, che sia l’infinito a giungere fino a noi, fino al nostro sguardo e corpo. L’immagine assomiglia stranamente al fotogramma del film di Lanzmann (ma anche al campo lungo del parco in Blow up di Antonioni, storia di un fotografo). In fondo è sempre la stessa Terra. Qui però la linea non è d’ombra, non è così vuota né così piena, è una striscia di luce quasi senza tempo. Muta soprattutto il fuori campo, quella “continuazione dell’immagine nella sua cancellazione” (Luigi Ghirri), muta il suspens, la sospensione. La luce e il vuoto sono sempre effetto di suspens e di sospensione.
Poi c’è la terra. Troppe volte diciamo “per terra”, anche se non è più “la terra”, mentre la vita scorre tra pavimenti e soffitti, al massimo su lastre di pietra e superfici di asfalto. Ma qui c’è la terra. Arte di terra, land art nel suo senso più umile: se siamo fatti di terra, non possiamo perdere né acquistare terreno. “Non si ha mai terra da perdere – ha detto un Maestro - perché si è della terra”.
“Non c’è nulla di antico sotto il sole”, ripeteva Luigi rovesciando il detto dell’Ecclesiaste.
Avevo promesso di non parlare del passato, di evitare anche il lutto del luogo - come era, come è adesso, come non è più. Ho rinunciato così al gesto e genere a me più congeniali – andare sul luogo, passeggiare, divagare coi piedi, gli occhi e le parole. Il luogo, naturalmente, è quello dell’ultima fotografia di Luigi Ghirri, che pure c’è, esiste, a un paio di chilometri da dove abitava.
Sono cresciuti i nuovi condomini e le villette intorno a Roncocesi, scomparsi i fienili e vecchie mura. Sulla strada che va al cimitero cinto dal muro ora c’è un giardino curato, con le panchine e i lampioni. Il cimitero è circondato da un’area di parcheggio asfaltata coi posti predefiniti per le automobili, allineate in bell’ordine come le tombe. Ciò che resta o resiste è la vigna di fronte al cancello d’ingresso. Dopo il cimitero tutto sembra invariato. La strada si restringe, immersa tra i campi solcati dai canali d’irrigazione, di cui costeggia gli argini. Nei canali imperversano le nutrie. Il luogo si chiama “Valle dei Re”. Si arrivava a una chiesa diroccata che aveva di fronte un convento fatiscente; si mangiava gnocco fritto e la gente andava a rubare i pezzi di marmo, forse per adornare le future villette. La chiesa crollante è crollata del tutto, il convento ristrutturato, e i filari di pioppi cipressini all’orizzonte, già feriti dall’autostrada, quei filari di pioppi fotografati che avrebbero costituito un’inedita installazione visiva, da tempo sono tutti morti - come bruciati. Il luogo è qui, rinvenibile con precisione. Don’t look back.
L’ultima volta che sono stato a Roncocesi era domenica, l’odore biancastro dell’inverno, la terra invisibile, i bar chiusi, le automobili in sonno, le strade vuote, la voce di un bambino, un fugace sbattere di portiere nel parcheggio asfaltato.

- Murphy, la vita è solo figura e sfondo.

- Nient’altro che uno smarrirsi sulla strada di casa – aveva replicato Murphy (Samuel Beckett)


Beppe Sebaste, marzo 2009


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