Intertestualità e intrasoggettività. Luci della distanza
La poesia di Jabès
della distanza è l'apoteosi. Per più motivi. Per più ingredienti. L'erranza, i
rabbini, i1 libro, il deserto, il vento. Nella sua scrittura - come nella
psicanalisi più riuscita - è riconoscibile “la sola testimonianza di che cosa
sia cercare, nella prossimità, la traccia di se stessi, cercare, nella
prossimità, la più grande distanza” (Ettore Perrella, Il tempo etico, p.16).
“Una pagina bianca è
un formicolio di passi sul punto di ritrovare le loro orme...Dov'e il cammino?
Un cammino è sempre da trovare. Un foglio bianco è pieno di cammini...La
distanza è luce, 1o spazio di tempo in cui tu penserai che non ci sono
frontiere. Così, noi siamo la distanza. (...) Ciò che chiami “distanza” non è
che il tempo di una inspirazione, di una espirazione. Tutto l'ossigeno
indispensabile all'uomo è nei suoi polmoni. Vuoto è lo spazio della vita. (...)
La parola del viaggio è schiava del vento.(...) Tu sei qui, ma il luogo è così
vasto che essere l'uno accanto all'altro è gia essere tanto lontani da non
riuscire ne a vederci ne a sentirci.(...) Fanciullo, le lettere del tuo nome
sono così distanti l’una dall'altra che sei un fuoco di festa nella notte
stellata.”
Friabilità del
canto, respiro, vento e cenere che rintracciamo in Chateaubriand: “... a chi
appartengono quelle ceneri? I venti non ne sanno nulla”
Contrappuntato da
Paul Klee: “Nessuna meraviglia in quest'aria di scirocco”.
Vento e sapere.
Connessione splendidamente colta in un passaggio sulla 'bora' da Italo Svevo,
che - a posteriori - possiamo considerare il miglior commento all'opera
jabesiana. “...Si ha il torto di considerarla come una cosa sola mentre si
compone di migliaia di soffi che i naturalisti sanno poiché coincidono in tempo
e spazio ma dei quali, garantisco, uno non sa dell'altro. (...) Chi
prenderebbero in giro? Se non conoscono nessuno, quei nomadi, non conoscendosi
neppure tra di loro?”.
Pure di Montale è la
consapevolezza che “una distanza ci divide” (dove quel ‘ci’ è tentatore). Una
distanza che in un altro passo è resa ‘siderale’ dalla terza dimensione.
Distanza, sempre sotto le insegne del vento “ch'entra nel pomario/ vi rimena
l'ondata della vita” e “che nel cuore soffia”.
E se i venti boreali
non si conoscono neppure tra loro, analoga supposizione è valida per i rabbini
immaginari di Jabès e per il bagaglio di persone di Pessoa. Intersoggettualità
come intertestualità. Testi co-esistenti e contemporaneamente votati alla
reciproca in-conoscenza.
L'eteronimia (di
Pessoa) non è altro - sostiene Tabucchi - che la vistosa traduzione in
letteratura di tutti quegli uomini che un uomo intelligente e lucido sospetta
di essere. Questione di cui Orson Welles mostrava grande e ironica
consapevolezza. “Signore e signori... produco lavori teatrali a Broadway. ne
curo anche la regia. Sono attore di teatro. Scrivo, dirigo e recito in alcune
trasmissioni radiofoniche. Suono il violino e il piano. Dipingo, disegno e
pubblico libri. Sono romanziere e anche un mago. Non è notevole che io sia così
tante persone e voi tanto poche?".
E prim'ancora di
Welles, è il genio illuminante di Novalis: “Il genio è una persona veramente
sintetica...ogni persona si suddivide in più persone e la vera analisi della
persona produce solo persone”.
Un enunciato -
quest'ultimo - strutturato alla maniera di Sraffa: produzione di persone a
mezzo di persone.
I1 vento indica in
qualche modo il tragitto delle parole, cerca di dire qualcosa su come siano
orientate, da dove vengano, cosa portino seco. La congerie, la panoplia di
venti boreali di Svevo, lo splitting jabesiano dei mille rabbini immaginari, le
cento personalità di Pessoa (“il baule pieno di gente” - come evidenziava
giustamente Tabucchi), il multiforme ingegno di Welles, e anche i personaggi
pirandelliani, non sono forse la stessa cosa? Rappresentanti del clivaggio,
dello sfaldamento del soggetto, in particolare del soggetto della scrittura.
“Sii plurale come l'universo” esortava Pessoa. “Credevo di essere di più”
annota Lautrèamont, per il quale l'infinità dell'io è, più che un punto di
partenza, una conquista violenta e obbligata al fine di sottrarsi alla
condizione di angustia e di limite.
Avanzo che piuttosto di cianciare sulla
reintegrazione del soggetto parcellizzato, frutto di una nuova sempre vecchia
alleanza tra il peggiore freudismo e 1'esoterismo junghiano, basterebbe
controllare che nel tubetto sia rimasto ancora un filo di colla. Non si sa mai,
giusto per non prendere la strada di Artaud. Il ‘successo’ di una vita è in
fondo questo: riconoscere, prim'ancora di mantenere, le distanze tra queste
persone, tra questi nomi, tra questi venti, senza mai lasciare che si
allontanino troppo o che marcino con ritmi troppo diversi. Che vi sia
contrappunto, che vi sia controcanto, questo sì; ma che non si rinunci del
tutto a un pur scalcinato direttore d'orchestra. Polifonia non schizofrenia,
come - al contrario - equivocarono anni fa Deleuze e Guattari con il loro
elogio del molecolare e della schizoanalisi. Si potrà dire che il tema del
clivaggio è tutto romantico. Ciononostante mi limito a constatarne la verità e
la persistenza da un punto di vista - diciamo - pragmatico. Con Schlegel, non
capita d'imbattersi ancora oggi, anche se sempre più raramente, in libri “nei
quali anche i cani si appellano all'infinito?” Quanto a Jabès, anche se
l'accostamento potrà sembrare cinico e paradossale (né più né meno come i “Kant
con Sade” dello stesso francese terribile), è Jacques Lacan che, nel massimo di
lontananza di cultura e amicizia, lui che non era Blanchot, Derrida o Scalia, a
enunciarne la cifra. Così per caso, per la solita folgorazione, per la solita
irrefrenabile tendenza dei suoi enunciati a dire il vero, in materia del dire e
dello scrivere, insomma in materia di soggettività. “Poiché se non per il fatto
che l'Ebreo dopo il ritorno da Babilonia è colui che sa leggere, cioè che
prende le distanze dalla lettera attraverso la propria parola, trovando in essa
l'intervallo precisamente perché si avvale di un'interpretazione” (“Scilicet”,
p.176).
(MC, La distanza da noi stessi, libri in giacenza)
" (...) Considerò la cosa sotto tutti gli aspetti, la discusse con lei da cristiano, da pagano, da marito, da padre, da cittadino, da uomo. Ad ogni singolo ragionamento mia madre rispondeva sempre e soltanto da donna; ed era un'ardua lotta per lei, incapace di assumere tanti diversi caratteri, una lotta ardua: sette contro uno. "
RispondiElimina(Lawrence Sterne, Tristram Shandy)
"Ma che gente era? Lui era medico e per giunta giovanissimo e lei non rappresentava altro che la conferma femminile di essere la moglie del dotore; niente altro. Era la moglie di suo marito, e come tale fu tutta la sera timida e quieta."
RispondiEliminaRobert Walser, L'assistente