Intertestualità e intrasoggettività. Luci della distanza





(Edmond Jabès e Ferdinando Pessoa)

Dio non ha unità, come potrei averla io?


La poesia di Jabès della distanza è l'apoteosi. Per più motivi. Per più ingredienti. L'erranza, i rabbini, i1 libro, il deserto, il vento. Nella sua scrittura - come nella psicanalisi più riuscita - è riconoscibile “la sola testimonianza di che cosa sia cercare, nella prossimità, la traccia di se stessi, cercare, nella prossimità, la più grande distanza” (Ettore Perrella, Il tempo etico, p.16).



“Una pagina bianca è un formicolio di passi sul punto di ritrovare le loro orme...Dov'e il cammino? Un cammino è sempre da trovare. Un foglio bianco è pieno di cammini...La distanza è luce, 1o spazio di tempo in cui tu penserai che non ci sono frontiere. Così, noi siamo la distanza. (...) Ciò che chiami “distanza” non è che il tempo di una inspirazione, di una espirazione. Tutto l'ossigeno indispensabile all'uomo è nei suoi polmoni. Vuoto è lo spazio della vita. (...) La parola del viaggio è schiava del vento.(...) Tu sei qui, ma il luogo è così vasto che essere l'uno accanto all'altro è gia essere tanto lontani da non riuscire ne a vederci ne a sentirci.(...) Fanciullo, le lettere del tuo nome sono così distanti l’una dall'altra che sei un fuoco di festa nella notte stellata.”



Friabilità del canto, respiro, vento e cenere che rintracciamo in Chateaubriand: “... a chi appartengono quelle ceneri? I venti non ne sanno nulla”

Contrappuntato da Paul Klee: “Nessuna meraviglia in quest'aria di scirocco”.

Vento e sapere. Connessione splendidamente colta in un passaggio sulla 'bora' da Italo Svevo, che - a posteriori - possiamo considerare il miglior commento all'opera jabesiana. “...Si ha il torto di considerarla come una cosa sola mentre si compone di migliaia di soffi che i naturalisti sanno poiché coincidono in tempo e spazio ma dei quali, garantisco, uno non sa dell'altro. (...) Chi prenderebbero in giro? Se non conoscono nessuno, quei nomadi, non conoscendosi neppure tra di loro?”.




Pure di Montale è la consapevolezza che “una distanza ci divide” (dove quel ‘ci’ è tentatore). Una distanza che in un altro passo è resa ‘siderale’ dalla terza dimensione. Distanza, sempre sotto le insegne del vento “ch'entra nel pomario/ vi rimena l'ondata della vita” e “che nel cuore soffia”.

E se i venti boreali non si conoscono neppure tra loro, analoga supposizione è valida per i rabbini immaginari di Jabès e per il bagaglio di persone di Pessoa. Intersoggettualità come intertestualità. Testi co-esistenti e contemporaneamente votati alla reciproca in-conoscenza.

L'eteronimia (di Pessoa) non è altro - sostiene Tabucchi - che la vistosa traduzione in letteratura di tutti quegli uomini che un uomo intelligente e lucido sospetta di essere. Questione di cui Orson Welles mostrava grande e ironica consapevolezza. “Signore e signori... produco lavori teatrali a Broadway. ne curo anche la regia. Sono attore di teatro. Scrivo, dirigo e recito in alcune trasmissioni radiofoniche. Suono il violino e il piano. Dipingo, disegno e pubblico libri. Sono romanziere e anche un mago. Non è notevole che io sia così tante persone e voi tanto poche?".

E prim'ancora di Welles, è il genio illuminante di Novalis: “Il genio è una persona veramente sintetica...ogni persona si suddivide in più persone e la vera analisi della persona produce solo persone”.

Un enunciato - quest'ultimo - strutturato alla maniera di Sraffa: produzione di persone a mezzo di persone.

I1 vento indica in qualche modo il tragitto delle parole, cerca di dire qualcosa su come siano orientate, da dove vengano, cosa portino seco. La congerie, la panoplia di venti boreali di Svevo, lo splitting jabesiano dei mille rabbini immaginari, le cento personalità di Pessoa (“il baule pieno di gente” - come evidenziava giustamente Tabucchi), il multiforme ingegno di Welles, e anche i personaggi pirandelliani, non sono forse la stessa cosa? Rappresentanti del clivaggio, dello sfaldamento del soggetto, in particolare del soggetto della scrittura. “Sii plurale come l'universo” esortava Pessoa. “Credevo di essere di più” annota Lautrèamont, per il quale l'infinità dell'io è, più che un punto di partenza, una conquista violenta e obbligata al fine di sottrarsi alla condizione di angustia e di limite.


Avanzo che piuttosto di cianciare sulla reintegrazione del soggetto parcellizzato, frutto di una nuova sempre vecchia alleanza tra il peggiore freudismo e 1'esoterismo junghiano, basterebbe controllare che nel tubetto sia rimasto ancora un filo di colla. Non si sa mai, giusto per non prendere la strada di Artaud. Il ‘successo’ di una vita è in fondo questo: riconoscere, prim'ancora di mantenere, le distanze tra queste persone, tra questi nomi, tra questi venti, senza mai lasciare che si allontanino troppo o che marcino con ritmi troppo diversi. Che vi sia contrappunto, che vi sia controcanto, questo sì; ma che non si rinunci del tutto a un pur scalcinato direttore d'orchestra. Polifonia non schizofrenia, come - al contrario - equivocarono anni fa Deleuze e Guattari con il loro elogio del molecolare e della schizoanalisi. Si potrà dire che il tema del clivaggio è tutto romantico. Ciononostante mi limito a constatarne la verità e la persistenza da un punto di vista - diciamo - pragmatico. Con Schlegel, non capita d'imbattersi ancora oggi, anche se sempre più raramente, in libri “nei quali anche i cani si appellano all'infinito?” Quanto a Jabès, anche se l'accostamento potrà sembrare cinico e paradossale (né più né meno come i “Kant con Sade” dello stesso francese terribile), è Jacques Lacan che, nel massimo di lontananza di cultura e amicizia, lui che non era Blanchot, Derrida o Scalia, a enunciarne la cifra. Così per caso, per la solita folgorazione, per la solita irrefrenabile tendenza dei suoi enunciati a dire il vero, in materia del dire e dello scrivere, insomma in materia di soggettività. “Poiché se non per il fatto che l'Ebreo dopo il ritorno da Babilonia è colui che sa leggere, cioè che prende le distanze dalla lettera attraverso la propria parola, trovando in essa l'intervallo precisamente perché si avvale di un'interpretazione” (“Scilicet”, p.176).

(MC, La distanza da noi stessi, libri in giacenza)

Commenti

  1. " (...) Considerò la cosa sotto tutti gli aspetti, la discusse con lei da cristiano, da pagano, da marito, da padre, da cittadino, da uomo. Ad ogni singolo ragionamento mia madre rispondeva sempre e soltanto da donna; ed era un'ardua lotta per lei, incapace di assumere tanti diversi caratteri, una lotta ardua: sette contro uno. "
    (Lawrence Sterne, Tristram Shandy)

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  2. "Ma che gente era? Lui era medico e per giunta giovanissimo e lei non rappresentava altro che la conferma femminile di essere la moglie del dotore; niente altro. Era la moglie di suo marito, e come tale fu tutta la sera timida e quieta."

    Robert Walser, L'assistente

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