Foto, calli, grafie
Foto,
calli, grafia
di Marcello Walter Bruno
La scrittura a
macchina sta a quella manuale come la fotografia sta alla pittura e al disegno:
daremo l’aura solo a ciò che sembra provenire in-mediatamente (cioè senza
medium tecnologicamente avanzato, senza automa) dal corpo? Roland Barthes, nel
percorso che va dalle Variazioni sulla scrittura (1971) a La camera
chiara (1980), rinnova le paure e le speranze che già erano state di Walter
Benjamin: la sua “risalita al corporeo” fa dell’atto muscolare della scrizione
(scription) il luogo in cui il soggetto si rende visibile attraverso la
riconoscibilità del gesto (che avrebbe nella firma, per definizione
illeggibile, il suo suggello e sigillo identitario), mentre il carattere
automatico della tecnologia fotografica farebbe sparire l’autorialità a tutto
vantaggio del referente (il corpo della persona fotografata, benché ridotto
allo stato di spettro, di revenant).
Ecco dunque la
supremazia del pre-tecnologico appoggiarsi su una strana teoria della catena
metonimica anima-mente-corpo-supporto. Il pennello governato dalla mano, così
come la penna governata dalla mano, tracciano segni che sono sempre indici di
una soggettività non uniformata, non formattata: basta guardare in successione
i decenni di strips disegnate da Charles Schulz per notare che la maturazione
dei Peanuts è seguita da un lento e inesorabile spezzettarsi della linea
grafica. Invece la macchina da scrivere (invenzione ottocentesca) produce
sempre gli stessi caratteri, così come la macchina fotografica (invenzione
ottocentesca ovvero della modernità) produce immagini causate dal profilmico
più che dal fotografo. Insomma, i calli dello scrittore e del pittore fanno del
manoscritto originale e dell’opera d’arte originale (pezzo unico per
definizione) il luogo del valore creato dal lavoro fisico; mentre i calli del
dattilografo e del fotografo sono solo i danni collaterali di una pratica in
cui il plusvalore è aggiunto dalla macchina (come nella produzione industriale
opposta a quella artigianale).
Ovviamente questa
teologia della manualità non tiene conto di un possibile ateismo del lavoro
fisico. Robert Capa diceva che se la foto non è venuta bene è perché non eri
abbastanza vicino: qui l’impegno del corpo è una mistica del rischio, per cui
l’istante decisivo può anche essere quello della morte colta all’istante (cosa
impossibile alla pittura). Quanto alla scrittura, è chiaro che il doppio
apprendimento di un “corsivo” (aperto alle variazioni dell’individuo) e di uno
“stampatello” (che presume l’invenzione di alfabeti tipografici) lascia
intendere che la deriva grafologica (da arginare fino all’eventuale ingiunzione
di una “firma leggibile”) può convivere con l’estetica calligrafica della
scrittura monumentale o comunque pubblica. La calligrafia, lungi dall’essere
una pratica dotata di senso contemporaneo, è oggi il burkini della
comunicazione, l’ennesima nostalgia reazionaria, il rifugio nel pre-moderno
spacciato per post-industriale; un estetismo, insomma, con i suoi limiti di
marketing (una pergamena di laurea può essere vergata in caratteri gotici se
proviene da un’università antica, non dall’Unical).
Certo, non esiste
il fascino del dattiloscritto; io stesso ne ho buttato uno regalatomi da
Umberto Eco. Eppure, la scrittura non è la grafia, lo stile non è un oggetto
per grafologi – e, per dirla tutta, l’anima non è nella mano. Dopo due secoli
di macchina da scrivere e macchina fotografica, è ancora alla perdita dell’aura
che dobbiamo fare il callo.
emmevubi su Cronache delle Calabrie
Nel disegnare menabò, timone, testata e testatine, mi sono avvalso di un
giovane calligrafo, Andrea Liserre. Ciò che ne è venuto fuori mi sembra
interessante, soprattutto per la convivenza con la gabbia ordinata del tabloid
composta rigorosamente con Palatino e Gill Sans (in allegato troverete qualche
pagina a mo' di esempio).
A Marcello ho sempre invidiato la bella grafia (faceva pure delle belle
caricature) e "distante un padre" ho un vago ricordo che fosse frutto
di stimoli da cartoleria. Poi, cominciò a tracciare compulsivamente
(autisticamente) e a cancellare qualsiasi testo finisse sotto il suo sguardo.
Non era Isgrò e il bell'esempio terminò.
Aldo Presta di alfabeti, fonts e lettering, ovviamente ne sa molto più di me. I
rudimenti in materia di grazie e disgrazie, linee, interlinee, sterlineati,
etc. li devo a lui.
Donata si occupa - da militante - di segni nell'aria, insomma di immagini
acustiche. Sono certo che troverà stimolante la questione.
Di Marco Mazzeo ricordavo il suo bel "tatto e linguaggio" e
qualcosa di stringato me l'ha già inviato. Avevo dimenticato che fosse mancino
e che con la scrittura avesse un brutto rapporto. Mi ha costretto ad associare,
come surplus di motivazione, la mia transitoria perdita dell'uso della mano
destra.
Il tutto non ha la forma dell'intervista ma mi piacerebbe che ognuno
trovasse il modo per trasmettermi il suo pensiero.
1. Son vecchietto, ormai ho quasi 70 anni (3 o 4 meno di Marcello). Le scuole elementari le ho fatte agli
inizi degli anni '60 e di esercizi di calligrafia già non c'era traccia.
Conservo però i quaderni di mio padre (classe 1921). Forse riderete della
correlazione, ma non sembra un caso che Spartaco (mio padre) fosse una persona mite e gentile,
bene educata, razionale, sobria e ordinata. Mentre chi vi scrive è segnato dal
caos, dall'incostanza e - diciamolo pure - dalla nevrosi. Sarà un caso?
2. (ve la pongo per il tramite di Anna Ronchi, decana dell'Associazione
calligrafica italiana)
"(...) anno dopo anno, l’insegnamento della calligrafia è stato
abbandonato. Si sono fatte strada due opinioni: la prima è che non si debbano
costringere i bambini ad eseguire faticosi esercizi che portano ad una
scrittura standardizzata, uniforme, con perdita di individualità. Si dimentica
che la scrittura, per il suo compito di essere veicolo di comunicazione, deve
rispettare delle regole, dei canoni, non è invenzione, libera espressione come
il disegno, per esempio. E oggi ci accorgiamo dei danni di tale tendenza, ci
sono moltissimi bambini e ragazzi che hanno una scrittura illeggibile: un
gravissimo problema che si riversa sulle insegnanti e un danno per loro stessi.
I casi di disgrafia sono in aumento, per non parlare della dislessia. I bambini
con difficoltà di scrittura e di lettura possono trarre beneficio da esercizi
di scrittura mirati, ritornando a sperimentare direttamente le forme, con le
dita (tramite il tatto) o con il braccio o il corpo intero (esplorando lo
spazio).
La seconda opinione, che si sta facendo strada recentemente, è che lo
scrivere oggi sia inutile, in presenza di mezzi veloci e potenti e sempre più
diffusi come i computer.
A queste due tendenze, che faranno emergere il problema in tutta la sua
gravità nei prossimi anni, si aggiunge un fatto reale che è l’impreparazione
dei formatori sotto il punto di vista grafico. Si pensa che scrivere una ‘o’,
un cerchio con un trattino di uscita, in direzione antioraria piuttosto che
oraria sia la stessa cosa, invece l’effetto sulla leggibilità è tremendo. I
maestri della vecchia generazione sapevano bene insegnare a scrivere la lettera
‘o’ in senso antiorario! Tante abitudini si sono perse, tra cui la tenuta della
penna, la postura. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti, maestri e
genitori. Sono molte le richieste di aiuto, ci sono bambini che fanno una
fatica tremenda a scrivere, che hanno una scrittura caotica (disordinata è un
complimento), i cui testi non si possono più leggere.
Pensiamo davvero che i ragazzini possano sostituire la scrittura manuale
con un qualche sistema di digitazione di lettere?" (...)
2.1. Per non parlare poi dei cosiddetti "nativi digitali".
Che ne pensate? E' questione ancora attuale? Avrebbe senso porre alla
scuola dell'obbligo l'obbligo di ricominciare, di re-imparare, a scrivere? (MC)
Un mancino contrariato
di Marco Mazzeo
Le questioni che poni sono tutt'altro che
secondarie. La loro gravità rende difficile cavarsela con una battuta o quattro
righe. Butto giù solo qualche impressione stenografica. Prendila per quello che
è.
Il problema della scrittura ha un sua
forte specificità (è appena uscito on line un numero della rivista il sileno
curata da Giorgio Lo Feudo tutto sulla scrittura, il numero è a cura di Massimo
Prampolini, uno dei massimi conoscitori italiani della questione: dagli un
occhio forse può darti qualche spunto). Del resto però si incrocia irrimediabilmente
con le diffidenze o i facili entusiasmi verso la tecnica, intesa in senso più
generale.
In ogni fase iniziale di affermazione di
un congegno tecnico (la scrittura alfabetica, la digitazione informatica ma
anche l'elettricità o il motore a scoppio) non è raro che esso si affermi nel
modo più rude. Ciò non vuol dire che quel congegno sia un male di per sé.
Viceversa chi sostiene che scrivere a penna è inutile (e quanti psicologi
cognitivi lo fanno) dice qualcosa di simile a chi, di fronte alla nascita della
scrittura su tavoletta, avesse detto che da quel momento in poi sarebbe stato
inutile parlare a voce alta.
Il punto credo sia la varietà delle forme.
La calligrafia in quanto tale la trovo, te lo dico sinceramente da mancino
contrariato alle scuole primarie, una forma autentica d'espressione come può
esserlo la lezione frontale dalle suore o gli esercizi ginnici della fanteria.
Altro è invece vedere l'atto di scrittura come una possibilità di espressione
ed esplorazione dello spazio corporeo e del mondo tattile. Ma allora non
andrebbe mai da sola: la motricità fine che implica la gestione della penna
trova solidarietà nella manipolazione della sabbia nella prima infanzia, in
laboratori di meccanica nei quali i bimbi possano esplorare strumenti, materiali
e atti manipolativi tecnici, in giochi legati all'uso dell'ago e del filo,
della cucitura e del ricamo e in attività motorie nelle quali si unisca il
gesto allo specchio, la corsa e una prima schematizzazione matematica dello
spazio.
Isolare la mano dal corpo non è segno di
attenzione al corpo ma di sua segmentazione metonimica. Se invece l'attenzione
alla scrittura con penna è un pezzo di un processo più ampio di esplorazione
corporea del bambino allora diventa una parte fondamentale di una pedagogia
sovversiva che consenta all'infante possibilità infinite d'espressione e
trasformazione della realtà.
Spero di aver detto qualcosa di vagamente
sensato.
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