Abitare l'inabitabile
Giorgio Agamben, 7 dicembre 2018
(...) Ma che significa «abitare»?
Il verbo latino habitare, da cui deriva il nostro termine «abitazione», è un frequentativo di habeo, che significa avere. Noi usiamo il verbo avere – come facciamo del resto per il verbo essere – come se il suo significato fosse scontato. Non è così. Sempre di Émile Benveniste possediamo un saggio prezioso, il cui titolo è Essere e avere nelle loro funzioni linguistiche, che mostra che non solo il significato di questi due verbi è estremamente problematico, ma che essi sono anche legati da una relazione complessa. Scopriamo così che il verbo avere – come il verbo essere – è assente nella maggior parte delle lingue. In molte lingue, come in arabo e nelle lingue altaiche, esso è sostituito da espressioni del tipo «essere a» o «essere di». Da questo è facile trarre la conclusione che avere non è che l’inverso di «essere-a», che è l’espressione normale. Mihi est pecunia si rovescia in ego habeo pecuniam: la cosa che era soggetto nella prima espressione si trasforma nella seconda in oggetto.La conclusione di Benveniste è che tanto essere che avere sono verbi di stato. Ma, pur essendo vicini, essi differiscono, perché essere è lo stato dell’essente, di chi è qualcosa; avere è lo stato dell’avente, di chi ha o possiede qualcosa. Essere stabilisce fra i due termini un rapporto intrinseco di identità, avere un rapporto estrinseco di possesso.
Ma è veramente così? Alcuni degli esempi che Benveniste cita fanno pensare che il significato dei due verbi sia ancora più vicino di quanto il linguista vorrebbe suggerire.
Da habeo derivano habilis («facile da avere o maneggiare, che si presta bene all’uso» poi «abile, capace di fare qualcosa»); habitus («modo di essere, contegno, tenuta» – quindi «capacità, disposizione, abito» – per esempio, l’architetto ha l’abito della tecnica di costruire); habitudo («modo di tenersi o comportarsi stabilmente», «costituzione corporea» – e, più tardi «abitudine»); habena (correggia, briglia, ciò da cui qualcosa è tenuto insieme). Istruttiva è anche la formula comune bene habet, va bene, o se bene habere, star bene. E, infine, il nostro verbo intensivo habitare, che non significa soltanto «stare abitualmente, dimorare», ma innanzitutto «avere stabilmente o di solito, avere l’habitus o l’abitudine di qualcosa»: si noti la curiosa espressione, attestata ad esempio in Gregorio Magno e nel vocabolario monastico, secum habitare, abitare con sé, cioè: avere un certo abito di sé, un certo modo di essere e di vivere rispetto a se stessi, un certo uso di sé.
Come questi vocaboli suggeriscono, i significati di avere e di essere sembrano quasi indeterminarsi, quasi che avere significasse innanzitutto «avere un certo modo di essere», essere disposto in un certo modo. L’abitazione diventa in questo senso una categoria ontologica. Abitare – questa è la definizione che vorrei provvisoriamente proporvi – significa creare, conservare e intensificare abiti e abitudini, cioè modi di essere.
L’uomo è un essere «abitante», perché esiste sul modo dell’avere – cioè, nel senso che si è visto, dell’abilità, dell’abito e dell’abitudine. L’uomo è, cioè, un vivente che trasforma l’essere in un avere: in abilità, tecniche, abiti ed abitudini. Vi è una reciprocità e un continuo scambio fra essere e avere. E questa reciprocità è anche una buona definizione dell’etica, se non si dimentica che il vocabolo greco ethos ha a che fare con il modo di essere e vivere con gli altri e innanzitutto con sé, se non si dimentica, cioè, che l’etica è innanzitutto un secum habitare. Per questo l’uomo ha bisogno non solo di una tana o di un nido, ma di una casa, cioè di un luogo dove «abitare», dove costruire, conoscere e esercitare intensamente i suoi «abiti». Costruire, che è l’oggetto dell’architettura, presuppone o ha costitutivamente a che fare con l’abitazione, la facoltà di abitare. La rottura del nesso fra costruzione e abitazione implica allora per l’architettura una crisi radicale, con la quale chi pratica seriamente quest’arte non può fare a meno di misurarsi.
Il testo è parte di una conferenza tenuta alla Facoltà di architettura dell’Università di Roma La Sapienza il 7 dicembre 2018.
Giorgio Agamben: secum habitare
§
Massimo Celani
I fratelli albanesi e i cugini vucumprà
Chora, dal Timeo platonico fino a Derrida, è parola di difficile traduzione oltre che di aspra concettualizzazione. Luogo, posto, ricettacolo e nello stesso tempo non luogo. Più che “è” sta per “può”, “può essere”? Traduzione possibile “che non esaurisce la questione. Infatti: che cosa ha possibilità? Chi può?” – si chiede Peppe Barresi in un libro collectaneo dedicato appunto a Jacques Derrida e ai “Luoghi dell’indecidibile”. A qualcuno ricorderà forse l’obamiano-veltroniano “Yes, we can”, ma poco gli somiglia. In altri passi vengono citati quell’incoraggiamento, affettuoso e problematico, indirizzatogli da Jean Hyppolite “non vedo dove lei vada”. Ricorda Derrida “di avergli pressappoco risposto così: se io vedessi chiaramente, e in anticipo, dove vado, credo di sicuro che non farei mai un passo in più per recarmici. (…) A che pro andare dove si sa che si va e dove si sa destinati ad arrivare”. Più avanti, nello stesso libro – edito da Rubbettino Università – si ritrova ampiamente citato un testo di Jacques Bouveresse (ci limiteremo per esigenze di spazio a rimarcarne il solo titolo): “L’oscurità del tempo presente”. Lì si discuteva del Wittgenstein politico, della sua ritrosia, del suo “sarà rivoluzionario colui che potrà rivoluzionare se stesso”. Ancora una volta un “potrà”, una possibilità espressa al futuro.
Jean Hyppolite
rivolto a Jacques Derrida:
“non vedo dove lei vada”
Dunque, e non è solo per par condicio, oltre che al PD occorre
chiedere soprattutto al M5S dove vuol andare e a fare cosa. Ci auguriamo
perlomeno a liberarsi del salvinismo che si è incistato nel Movimento.
Skanderbeg e la diaspora albanese
Gli arbëreshë, ossia gli albanesi d'Italia, sono
una minoranza linguistica e culturale presente nel meridione d’Italia. Di
questa antica collettività, detta Arberia, fanno parte circa 100mila
persone e tra questi, almeno l'80%, parla o comprende la propria variante locale
dell'arbëresh, la lingua del gruppo. Gli italo-albanesi sono disseminati
in Campania, Molise, Puglia, Basilicata, Sicilia e, soprattutto, Calabria, dove
c'è la comunità più numerosa, con oltre 58.000 persone. Solo ieri in tutti i
telegiornali abbiamo sentito che gli albanesi ci definiscono “fratelli”, mentre
noi calabresi negli anni 80 optammo – con riconoscenza attenuata – per l’appellativo
“cugini”. Per riferirci ai lavavetri, ai venditori di accendini, insomma ai vucumprà che stazionavano ai semafori.
Non a caso Sergio Mattarella, a settembre del 2018 in uno dei suoi primi viaggi istituzionali, ha reso omaggio alla figura di Giorgio Castriota Skanderbeg nel giorno del 550° anniversario della sua morte. Skanderbeg, ovvero l'eroico difensore dell'indipendenza albanese (in turco: Iskander è Alessandro, conallusione a Alessandro il Grande, + beg (onde): Iscanderbeg o Scanderbeg).
Così il Capo dello Stato si è recato a San Demetrio Corone, in provincia di Cosenza, dove ha incontrato il suo omologo albanese, Ilir Meta, e insieme hanno inaugurato una targa commemorativa dedicata a Skanderbeg. “La diaspora albanese – ha ricordato Mattarella – identificò proprio in Skanderbeg il collante per mantenere vivo il legame con la patria d'origine, integrandosi pacificamente ed efficacemente in varie zone d'Italia”. “Gli arbëreshë – ha sottolineato il Capo dello Stato – costituiscono una storia di integrazione e accoglienza che ha avuto pieno successo, un esempio di come la mutua conoscenza e il reciproco rispetto delle culture siano strumento di crescita per le realtà territoriali e per i Paesi in cui le diverse comunità vivono”. “La preservazione delle antiche origini, la reciproca influenza, la fusione armonica di lingua, cultura e tradizioni – è stato l’elogio di Mattarella – sono state nei secoli e sono ancora oggi il valore aggiunto di queste comunità. Realtà che svolgono un'essenziale funzione di ponte tra i ‘due popoli di fronte', come spesso ci si riferisce ad albanesi e italiani” (Mirko Bellis, 8 novembre 2018, in fanpage.it).
Preciso e oltremodo pedagogico, ma troppo sottile, il
messaggio indirizzato all'allora ministro degli interni, quello di "prima
gli italiani". Stessa cosa per il bellimbusto che oggi ambisce a fare il ministro
degli esteri: troppo debole in storia, geografia e geopolitica.
Agosto 1991,
gli albanesi sbarcano in Italia
E' questione antica, di relazioni di prossimità, vicinanza e
amicizia tra i popoli. O - se vogliamo - di contagio massmediale all'epoca
delle tv berlusconiane. Molto più antica di quando l'8 agosto 1991 vedemmo
arrivare a Bari la nave Vlora, proveniente dal porto di Durazzo, con un carico
di ventimila albanesi saliti a bordo con la forza. "Vlora" significa
"nave dolce", anche perché trasportava tonnellate di zucchero di
canna imbarcato a Cuba. Purtroppo dalle nostre parti non abbiamo memoria del
Male e, molto spesso, nemmeno del Bene.
Dopo il crollo del regime di Enver Hoxha, l'imbarcazione
venne assaltata da cittadini albanesi attratti dal miraggio di una vita migliore
in Italia. Ancora non erano all'orizzonte le ONG, i taxi del mare di Di Maio e
i fantasmi degli irregolari e dei clandestini di Meloni, Salvini e Santanché,
ma anche noi usammo l'inganno per il rimpatrio degli esuli e i migranti
salirono sugli aerei convinti di essere trasferiti a Roma o a Venezia. Così le persone
a bordo del Vlora vennero prima sistemate nello stadio della Vittoria di Bari e
poi, con la falsa promessa di essere trasferite a Venezia, rimpatriate a
Tirana. Esattamente come oggi incarichiamo e finanziamo la guardia costiera
libica al fine di riportarli nei lager. Ancora non c'era il coronavirus ma 2000
albanesi riuscirono comunque a darsela a gambe. E comunque erano mesi che già
accoglievamo barche e barchini, navi mercantili e imbarcazioni di ogni tipo.
Soprattutto a Brindisi. Fuggivano dalla crisi economica e dalla dittatura comunista
in Albania. Fu un esodo biblico, il primo verso l'Italia, che molto ha
alimentato il cinema europeo. In un primo momento se ne contarono 18mila, ma
con il passare delle ore il numero di profughi salì a 27mila. I brindisini si trovarono di fronte a un
fiume di persone stremate e senza forze, affamate e assetate. Molti i cittadini
che si prodigarono negli aiuti alimentari, vestiario e medicinali. Dalle navi
scendevano donne, bambini e uomini in condizioni disperate. Fuggivano da un paese
in piena crisi economica e per loro l'Italia rappresentava un futuro migliore.
Avevano immaginato una terra promessa guardando i programmi televisivi
italiani. Film e talk show che descrivevano benessere e ricchezza e avevano
contribuito a costruire quel sogno.
Ancora non usavamo definirli migranti economici o irregolari
o - peggio - clandestini. L'Italia non era pronta ad accogliere un flusso
migratorio così ampio. Mancavano le strutture dove portare i profughi. Scuole,
parrocchie, centri sociali diventarono punti d'accoglienza. Alcuni dei profughi
sbarcati a Brindisi furono poi
trasferiti, in Sicilia, in Basilicata, alcuni ospitati in
abitazioni private o ex istituti di assistenza sparsi in tutta Italia. L'emergenza non riguardava solo l'assistenza e
la sistemazione dei migranti, ma anche la presenza di molti minori che si erano
imbarcati senza i genitori, ma che attendevano di ricongiungersi a loro.
Il sesto governo Andreotti tentennò per cinque giorni prima
di intervenire decidendo di aiutare i boat people. Il mondo è piccolo e il semplicismo
dell'algoritmo xenofobo sempre lo stesso. Indovinate chi sostenne che i
profughi andavano "ributtati in mare" e "le navi affondate"?
La presidente della Camera Irene Pivetti.
Il Vlora è una latrina maleodorante. Zero empatia ma vero.
Oggi siamo all’africano che arrostisce un gatto in stazione. Spiega Soumaila
Diawara: “dalle mie parti, e similmente in tanti altri luoghi (ricordo che
l'Africa è un continente di 54 paesi), gli adulti non mangiano i gatti! E se un
ragazzo si mette su un marciapiede ad arrostire un gatto significa che c’è
qualcosa che non va. È molto probabile che sia una persona che va aiutata, non
messa alla gogna mediatica” (ma non ditelo a Susanna Ceccardi che evidentemente
è afflitta da gracilità mentale, non capirebbe).
Così la polizia dirotta tutti verso il vecchio stadio di
calcio, in attesa del da farsi. Giulio Andreotti, detta da Roma questa
dichiarazione: “Non siamo assolutamente in condizione di accogliere gli albanesi
che premono sulle coste italiane e lo stesso governo di Tirana è d'accordo con
noi che debbono essere rinviati nella loro nazione”. (Praticamente la stessa
dinamica tra Italia e Tunisia).
Allo stadio scoppia la guerriglia. I più giovani divelgono
le gradinate e tirano sassi alla polizia. Scontri duri per tre giorni, i più
violenti domenica 11 agosto, con 40 feriti tra le forze dell'ordine e un numero
imprecisato fra i manifestanti. Gli esuli vengono sfamati e dissetati dal
cielo, con sacchi lanciati da elicotteri.
Rimasero in Italia i 1.500 che avevano fatto domanda di asilo
politico. Intanto, viene organizzata la
più
poderosa operazione di rimpatrio della storia repubblicana.
Tra aerei militari, Alitalia e motonavi. Fingendosi albanese, s'imbarcherà
clandestinamente anche Marco Guidi inviato del Messaggero (a cui attingiamo a
piene mani per questa cronaca).
Gianni De Michelis, ministro degli Esteri, vola a Tirana a
illustrare un piano di aiuti italiani: 90 miliardi di lire per alimenti, 60 per
il decollo industriale, forniture per far riaprire a ottobre le scuole, e
cooperazione nell'ordine pubblico per impedire nuove partenze. Il vice
presidente del Consiglio era Claudio Martelli, Valdo Spini uno dei
sottosegretari agli interni, Mino Martinazzoli ministro delle Riforme
istituzionali e Margherita Boniver aveva la delega degli Italiani all'estero e
all'immigrazione. Antonio Maccanico quella agli Affari regionali, poi passata a
Francesco D'Onofrio. Insomma la classe dirigente sembrava venuta da un altro
pianeta e ciò nonostante ci furono lamentele per i modi sbrigativi del
rimpatrio. I deputati del PDS “pur condividendo la decisione dolorosa di
rinviare i profughi in Albania” denunciarono “la scelta scellerata di non
rispettare i diritti umani, negando loro una assistenza decente”.
Il riferimento è a un regime comunista ormai allo sbando.
Ciò non toglie che, in quegli anni, l'Italia in generale e la Puglia in particolare
dessero grandissime prove di accoglienza. Tra Roma e
Tirana si stipulerà più tardi un accordo modello, in grado
di favorire l'immigrazione regolare. Niente di più lontano dalle proteste
fascio-leghiste organizzate dai cittadini di Amantea contro il trasferimento di
13 cittadini del Bangladesh - positivi al coronavirus - in un centro di
accoglienza presidiato h24 dalle forze dell'ordine. Pattuglia residuale di
altre 53 persone sbarcate a Roccella Jonica.
Da Tirana ad
Amantea, passando per Roccella Jonica
Vittorio Zito, sindaco di Roccella, si ricollega così -
idealmente - allo sbarco del 1991. "Roccella ospita 20 migranti, minori non
accompagnati, sbarcati la scorsa notte. Lo fa perché è un suo preciso dovere
dettato dalla legge. Ma lo fa anche perché crede che quando si è chiamati a svolgere
il proprio dovere lo si deve fare fino in fondo. E se è tuo dovere organizzare
l’accoglienza dei minori non accompagnati – ragazzini di 13, 14 o 15 anni che
hanno negli occhi la tristezza della fuga dalla propria casa, il dolore per
quello che hanno visto e la paura per il futuro – lo fai al meglio e basta.
Poi, quando ti dicono che tra di loro ci sono 5 casi di positività al COVID 19,
ti metti subito al lavoro per gestire in piena sicurezza questa situazione, al
fine di non generare alcun pericolo per i cittadini e i turisti. Ma facendo attenzione
a non abbandonare nemmeno per un istante la preoccupazione di garantire il
pieno rispetto della dignità di questi esseri così fragili".
Questa è una delle calabrie etiche, oltre che intelligenti,
rispettosa della carta costituzionale, desiderosa di trovare soluzione ai problemi.
Avanziamo, ma è solo una suggestione che sia stata influenzata dalla cultura jazz
che ha accompagnato per 40 anni questi luoghi (dal 21 al 30 agosto in edizione
XL).
«Quadro giudiziario inconsistente» fondato su «elementi congetturali e presuntivi».
Depositate le motivazioni con le quali i giudici del Riesame di Reggio Calabria respingono la reiterata richiesta di misure cautelari del Pm di Locri nei confronti di Mimmo Lucano
Altra questione è quella, visibile a tutti e modello invidiabile
d'integrazione tra i popoli e di recupero dei borghi abbandonati, di Mimmo
Lucano a Riace. Era l'estate del 1998, quando approdò una barca di 35 metri,
partita da Istanbul, con 200 curdi in fuga dalle persecuzioni politiche in
Turchia, Siria e Iraq, a cui vennero messe a disposizione le vecchie case
abbandonate. Succede che il giovane sindaco orienta tutta l'amministrazione
all'integrazione dei rifugiati aprendo scuole, finanziando micro attività,
realizzando laboratori, bar, panetterie e perfino la raccolta differenziata
porta a porta, realizzata nel centro storico con l'utilizzo degli asini. Finito
ai domiciliari con le accuse di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e
di avere commesso illeciti nell'affidamento diretto del servizio di raccolta
dei rifiuti.
Finalmente, a luglio di quest’anno, si è giunti al deposito
delle motivazioni con le quali i giudici del Riesame di Reggio Calabria
respingono la reiterata richiesta di misure cautelari del Pm di Locri nei
confronti di Mimmo Lucano.
«Quadro giudiziario inconsistente» – si legge nelle
motivazioni – fondato su «elementi congetturali e presuntivi». Una questione
che si è trascinata per troppo tempo e che ha fatto troppe vittime. Sarebbe il caso
che la ministra Lamorgese s’interrogasse su come mai, nei punti di comando
degli apparati ministeriali cui è deputata la questione, restino uomini
nominati dall’ex ministro Salvini, come ad esempio l’ex prefetto di Reggio
Calabria, elemento di punta dell’attacco a Riace, provando a riconsiderare
attentamente l’intera vicenda del “modello Riace”. A partire, ad esempio, dallo
sblocco dei fondi dei progetti Cas e Sprar del 2017/2018 dovuti per servizi
effettivamente resi e rendicontati dalle associazioni che gestivano all’epoca
l’accoglienza. Oltre che da un elementare senso di giustizia verso un uomo
onesto, lungimirante e capace, e verso la paradigmatica esperienza della sua
Riace. Fatta a pezzi dal combinato disposto di dicerie, pettegolezzi, bufale, “elementi
congetturali e presuntivi”, sabotaggi vari, odio fascioleghista e bestia
salviniana.
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