Mele avec Perec
Rino Mele,
I dolorosi discorsi,
Sottotraccia, 2003
Mele avec
Perec
Potranno mai sommarsi le mele
con le pere?
Un bestiario di spazi
“Giustezza”, “spaziatura”, “interlinea”: sono le distanze
nascoste a cui il nostro occhio si abitua prima del nostro cervello.
Prim’ancora della prossemica e dell’epidemiologia, prima dell’abitudine alla
lettura. Ma a Salvini, Meloni e Santelli, insomma ai nostri infimi politicanti,
chi glielo spiega? E pure al nostro ministro degli esteri, già vicepremier del
governo precedente, quello del movimento né di destra né di sinistra, che si
muove imperterrito in spazi non orientati (tanto loro sono post-ideologici) che ha governato prima con la destra estrema e ora,
impunemente, pensa di fare le stesse cose con ciò che resta di una sinistra
afflitta dall’abuso di gastro-protettori?
Chi glielo spiega che, anche nel
clima di una nuova collaborazione tra governo e opposizione, non sappiamo cosa
farcene delle loro proposte immancabilmente identiche (anche se ondivaghe) e
massimaliste, centrate sull’inasprimento delle “misure” e sugli “investimenti
illimitati”. Chi spiegherà alla Meloni, la paladina del blocco navale e di
“affondiamo le navi delle Ong”, allo statista di “prima gli Italiani” e della
chiusura dei porti, e pure a quello dei “taxi del mare”, del “partito di Bibbiano”,
de “i Benetton”, che - prima del semplicismo demenziale, della miopia,
dell’altruismo e della carità cristiana, prima dell’intelligenza e dell’etica -
si pone forse una questione estetica e “optometrica”? [1]
Onore, vanto, “bandierina” dei 5 leghe è tradizionalmente la riduzione del
numero dei parlamentari. Un fantasma di assembramento
che si manifesta nel peggior periodo di diaspora e di liquidazione del Movimento.
In quel vuoto etico, strategico e politico, non a caso si staglia il commento di
rara raffinatezza di Paola Nugnes, insieme a Gregorio De Falco confluita da
tempo nel gruppo misto: “Quanta ignoranza istituzionale e spregio
costituzionale. Solo chi non comprende la bellezza della nostra architettura parlamentare
può parlare così impunemente di un taglio drastico, lineare ed inutile della
nostra rappresentanza. Chi favorirà questo taglio? La spesa? Troppa poca cosa
per tale enfasi, per tale compiaciuta soddisfazione vendicativa, favorirà i
capi di partito e gli interessi di pochi sui molti. E i capi di oggi non
saranno sicuramente i capi di domani, per questo le leggi e i regolamenti
dovrebbero essere sempre neutri”.
Un’architettura che ha nel taglio delle teste, della casta, un raddoppio di quello – autoinflitto - degli stipendi. Una castrazione demagogica che ha provocato molti malumori e pure qualche estromissione.
Un’architettura che ha nel taglio delle teste, della casta, un raddoppio di quello – autoinflitto - degli stipendi. Una castrazione demagogica che ha provocato molti malumori e pure qualche estromissione.
Specie
di spazi rappresenta il lavoro svolto da Perec all'interno del
progetto rappresentato da Cause commune, rivista che lo impegnò, accanto a Paul
Virilio e Jean Duvignaud, tra il 1972 e il 1974. Un lavoro che, più di tutti,
ha a che fare con l'indagine sociologica e antropologica. È lo stesso Virilio a
contribuire alla ricostruzione della genesi del libro: «All'origine di Espèces
d'espaces c'è una mia commissione. Chiesi a Perec di fare per
lo spazio l'equivalente di quello che aveva fatto, in Les choses,
per le cose. Mi rispose che avrebbe scritto un "bestiario di spazi",
che avrebbe mostrato diverse specie, come si fa con le differenti specie
d'animali».[2]
L'approssimarsi
di Perec allo spazio pone come premessa metodologica la necessità di
descriverlo. La sua lente di ingrandimento mette a fuoco anche i particolari
più insignificanti, estrae dal contenitore che è lo spazio tutto ciò che vi è
contenuto, perché solo in questo modo potrà padroneggiarlo, trasformarlo in
qualcosa di comprensibile, di attraversabile. L’analisi del dato spaziale,
infatti, coincide in Perec con un'indagine del quotidiano, con il fine di
«intraprendere un'investigazione della vita quotidiana a tutti i livelli, nelle
sue pieghe nascoste e nei suoi anfratti generalmente trascurati o rimossi»[3].
Il caso di Rino Mele è un distanziamento forzato,
parossistico, da Coronavirus, qualcosa che si situa molto al di là del cosiddetto
enjambement[4].
I versi di Verso dove?, pur essendo
del 2003, “sono così vicini all'angoscia di
questa crisi che ha violato tutti, e all'irriconoscibilità in cui siamo caduti,
dalla quale ancora non siamo salvi”.
Non resta / sul pavimento che un poco
/ d'ombra, la terra che la visione lascia /
quando scompare. Mi chiedi / cosa
sia la bellezza. E' lo sporco sul davanzale, / la paura /
di addormentarsi,
(...) .[5]
Scrive Mario
Santagostini: "Abbiamo visto il valore degli spazi bianchi per l'economia
del testo poetico, sia nel marcare il ritmo sia nell'evidenziare certe
"sospensioni" sia nell'indurre il lettore all'attesa", oltre che
denotare la pausa e dare al lettore il segnale che è giunto il momento di
riprendere il respiro. Ma "lo spazio bianco può essere utilizzato ben al
di là delle esigenze ritmiche (...) Disperdendo le pause, il poeta ha dunque
alzato al limite il contrasto tra scritto e non scritto, tra interno ed
esterno, dando insomma un particolare valore a ciò che sta fuori delle
parole"[6].
Per Rino
Mele, al contrario ad esempio di Perec, non sembra esserci addomesticamento
del dato spaziale (cosa che fa a volte abilmente il testo poetico e il
professionista della metrica). Non si tratta di cesura tra due emistichi, a maiore, dopo il settenario o a minore, dopo il quinario.
«Lo spazio comincia così, solo con
delle parole, segni tracciati sulla pagina bianca. Descrivere lo spazio,
nominarlo, tracciarlo, come gli autori di portolani che saturavano le coste di
nomi di porti, di nomi di capi, di nomi di cale, finché la terra finiva con
l'essere separata dal mare soltanto da un nastro continuo di testo».[7] Non
siamo nell’infinito leopardiano, tra gli «interminati / spazi
di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima
quiete / (… )». Ma, proprio con Perec, “suscito dei bianchi
tipografici, degli spazi (salti di senso, discontinuità, passaggi, transizioni)”.
Scrivo
nel
margine…
Vado
Eccoci qui
ricongiunti all’arguzia di Umberto Eco, come ironica characteristica
universalis della poesia (e della prosa).
"La poesia è quella cosa che va
a capo prima che la pagina sia finita, e la prosa quella che continua sino a
che si può sfruttare una porzione di carta, riducendo al massimo i margini,
perché la carta costa, anche in senso ecologico, e piuttosto che andare a capo
troppo in fretta si accetta anche di spezzare una parola in due, ciò che la
poesia di solito non fa, salvo nei deliri della più estrema avanguardia, e
guardate quanto tira lunghi i suoi versi, l'avanguardista Sanguineti, da buon
genovese, pur di non comprare un altro quaderno".[9]
Se enjambement ha riscosso una certa
fortuna presso la critica e continua a tutt’oggi a essere largamente impiegato,
ciò non ha arrestato il proliferare di etichette proposte dalla stilistica
delle differenti scuole europee. Padre Ireneo Affò di Busseto, nel suo Dizionario Precettivo, critico e istorico
della poesia volgare, registra la figura sotto la voce di “intralciamento”,
definendola anche “ingambamento”, mentre più di recente Mario Fubini invitava
ad adottare il termine “inarcatura”. Si
ricorda ancora il calco spagnolo “accavalciamento” (encabalgamiento) proposto da Marouzeau per l’italiano, ma non
attestato altrove. La critica tedesca ha ancora definito il fenomeno Versbrechung, mentre nei paesi anglofoni
è comunemente noto come run-on line. “Questa
incertezza terminologica attesta indubbiamente l’attenzione della critica verso
il fenomeno, ma al tempo stesso mostra un certo imbarazzo nell’identificarne
con chiarezza i tratti distintivi. Ciò dipende dalla natura stessa del
procedimento che, come abbiamo già accennato, è connaturato alla versificazione
e rischia in alcuni casi di essere appena percepibile. È necessario, quindi,
identificare una definizione chiara della figura, isolarne le differenti forme,
e cercare, per quanto possibile, di misurarne il grado di rilevanza stilistica.
Appare intuitivo che non tutti gli enjambement abbiano una medesima
“temperatura”. La gradazione stilistica di un enjambement dipende in
particolare da due fattori, la posizione della pausa sintattica nel verso e
l’estensione del segmento rigettato. A tal proposito sarà utile citare la
definizione di Grammont, il teorico che maggiormente ha contribuito a
codificare il fenomeno insistendo su questi aspetti.[10]
Ponendo
l’accento sulla struttura bipartita dell’enjambement (il fenomeno investe,
infatti, due versi), introduce il concetto di rejet, il “rigetto” nel verso successivo di una parola o di un
segmento sintattico: quand une
proposition, commencée dans un vers, se termine dans le suivant sans le remplir
tout entier, on dit qu'il y a enjambement, et la fin de proposition qui figure
dans le second vers constitue le rejet. L’estensione del rejet, che può suggestivamente limitarsi
a una singola parola o prolungarsi fino alla fine del verso, risulta non priva
di rilevanza stilistica («plus le rejet s’allonge, plus sa force diminue»).[11]
Sarà l'unità
metrica a essere spezzata dalla continuità del senso, o viceversa è
quest'ultimo a essere spezzato dalla conclusione dell'unità metrica? Comunque,
con tutte le perplessità e gli interrogativi, si è imposta una certa
convergenza su "spezzature", oltre che sul più tecnico-stilistico
"inarcature"[12].
La scienza
derivata dall’etica sadiana, soprattutto se in salsa contemporanea, ha
realizzato però un déblaiement — uno
spianamento del terreno (1. sterramento;
(edil.) sbancamento; 2. sgombero) e questo rinvia al Kant con Sade evocato da “Mele avec Perec” col quale ho voluto titolare
il presente omaggio a più di un maestro
indiretto, proprio a partire da Rino Mele.
Lacan
associa il “boudoir sadiano” alle Scuole della filosofia antica, dove “si
prepara la scienza rettificando la posizione dell’etica” [13]
Forse non a
caso rinveniamo questo suo incipit in Accecarsi,
scritto per i settant’anni di Edoardo Sanguineti.[14]
Tirare le parole verso il basso, aspra scarpata, forra,
un canale scosceso, strada ferrata
e lì, in quello sterro, luogo bruciato, inferno, alzare
i pali, stendere una tenda, due stracci
colorati, un sipario sulla scena vuota. Cacciarvi
all’improvviso uno spot, un proiettore,
mascherato sole senza luce
che faccia di quel quadrato un lago. (…)
Interessante, ma forse è un’associazione d’idee che mi ha condotto a
Perec (un autore suppongo lontano da Rino Mele):
Penso spesso alla quantità di
manzo che occorrerebbe
per fare un brodo con il lago di Ginevra
(Pierre Dac, L’os à moelle).[15]
Contrappunto o continuazione virtuale, anche se non Sanguinetiana, di
quel
mascherato sole senza luce / che faccia di quel quadrato un lago.
E’ curioso, o una coincidenza
che dopo Elvio Fachinelli abbiamo preso a inscrivere nel registro della
claustrofilia[16],
che la prima pagina di Specie di spazi riproduca
un quadrato vuoto, con sotto una didascalia
Figura I. Carta dell’oceano (da Lewis Carroll, La caccia allo snark)
Quanto sia urbanistica e prossemica la testualità, e in particolare da
situare nelle pratiche del movimento terra quella di Georges Perec e di Rino
Mele, è evidente dai tempi di Soglie: i
dintorni del testo[17]. Si fanno degli incontri, anche se i no-Tav e la maggior parte della sovradimensionata
rappresentanza cinquestelle - ai quali l’esercizio della lettura e della
complessità è barrata - non avranno modo di saperlo:
“Eppure provo sempre
qualcosa che assomiglia allo stupore quando penso all’incontro degli operai
francesi e degli operai italiani in mezzo al tunnel del Moncenisio”.[18]
E in altro luogo: “Non ci sarà più la scritta in lettere di porcellana bianca
incollate ad arco sulla vetrina del piccolo caffè di rue Coquillière: “Qui si
consulta l’elenco telefonico” e “Spuntini a tutte le ore”. [19]
Qui evidentemente l’inarcamento si letteralizza,
si porcellanizza.
Per Rino Mele l’enjambement
è forse mentale, prescinde dai canonici conteggi metrici, aspro o forse “gonfiato”
(come lo si direbbe dei muscoli di un culturista e – con lui - di Sanguineti),
di qualcuno che viene dall’ aspra
scarpata, dall’hardness dello
sterro, dalla produzione di sterrato.
In questo senso, secondo Lacan, Sade non
anticipa Freud ma, piuttosto, la scienza derivata dall’etica sadiana ha
realizzato un déblaiement — uno
spianamento del terreno, uno sgombero — che ha dovuto continuare per cent’anni
nelle “profondità del gusto”, dello stile di vita, affinché “la via di Freud
fosse praticabile”[20].
Ad
un certo punto Lev Vygotskij "fa sua la celebre frase di Dostoevskij per
cui, in certi casi, il pensiero non entra nelle parole". Salvo forse che
come “sbancamento”. Poco più avanti il compianto Giovanni Cacciavillani cita un
seminario di Wilfred Bion: "Un caso particolare di spazio è rappresentato
dalla parola. Questa è un esempio di luogo dove riporre qualcosa: il
significato da trasmettere". [21]
Il
pensiero non entra nelle parole, lontano ovviamente Dostoevskij dagli approdi
lacaniani, perché sono quelle stesse oggetti e luoghi dove riporre qualcosa,
secondo una tradizione che va da Jung (“Poeta è colui che sente l’oggetto”) a Bion e Salomon Resnik.
Secondo
Leopardi è Tutta questione di sensorio,
di pensiero senziente, e pure di sterratori e scarriolanti.[22]
In tempi a noi più vicini, con Heidegger, l'aperto (das Offene) può lasciar sorgere ogni cosa, "riposandola in lui
stesso"; anzi è invitato a farlo. “(...) dovremmo cercare ciò che è
peculiare dello sgomberare nella
fondazione di località e dovremmo meditare la località come gioco d'insieme di
luoghi”. «Le cose stesse sono i luoghi e non solo appartengono a un luogo».
Il Sachverhalt “inquietante” (befremdend) è che il luogo non si trova
in uno spazio già dato secondo le modalità dello spazio tecnico-scientifico. Il
volume ... non costituirà più la reciproca delimitazione fra spazi, le cui
superfici separano un interno da un esterno, e lo spazio vuoto, non costituisce
una privazione, bensì un produrre. Il
vuoto non è un nulla. Non è nemmeno un difetto o una mancanza.
«Vorrei che esistessero luoghi stabili, immobili, intangibili, mai
toccati e quasi intoccabili, immutabili, radicati; luoghi che sarebbero punti
di riferimento e di partenza, delle fonti: il mio paese natale, la culla della
mia famiglia, la casa dove sarei nato, l’albero che avrei visto crescere (che
mio padre avrebbe piantato il giorno della mia nascita), la soffitta della mia
infanzia gremita di ricordi intatti ... Tali luoghi non esistono, ed è perché
non esistono che lo spazio diventa problematico, cessa di essere evidenza,
cessa di essere incorporato, cessa di essere appropriato. Lo spazio è un
dubbio: devo continuamente individuarlo, designarlo. Non è mai mio, mai mi
viene dato, devo conquistarlo. I miei spazi sono fragili: il tempo li
consumerà, li distruggerà: niente somiglierà più a quel che era, i miei ricordi
mi tradiranno, l’oblio s’infiltrerà nella mia memoria, (…) Come la sabbia
scorre tra le dita, così fonde lo spazio. Il tempo lo porta via con sé e non me
ne lascia che brandelli informi. Scrivere: cercare meticolosamente di
trattenere qualcosa, di far sopravvivere qualcosa: strappare qualche briciola
precisa al vuoto che si scava, lasciare, da qualche parte, un solco, una
traccia, un marchio o qualche segno»[23].
locandina del 2012 per il corso di Daniele Vianello
(quando il Dams dell'Unical aveva aperto alla città di Cosenza)
Rino Mele invece, che è studioso di cose teatrali, ha chiaro il distinguo
tra palcoscenico e retroscena e sa che "Vivere, è passare da uno spazio
all'altro, cercando il più possibile di non farsi troppo male".[24]
E’ probabile allora che le Mele e le Pere(c) si possano sommare.
[1]
(1.La misura dell’acutezza visiva; estens., la scelta delle lenti necessarie
per correggerne i difetti. 2. In senso più specifico, disciplina a livello
scientifico ma non medico, che analizza il processo visivo per mantenerne o
rafforzarne l’efficienza in rapporto alle necessità dell’ambiente). Sottolineo:
“per mantenerne o rafforzarne l’efficienza in rapporto alle necessità
dell’ambiente”.
[3]
Paolo Melissi, op. cit.
[4]
Procedimento stilistico frequente nella poesia delle lingue sia classiche sia
moderne, consistente nel dividere una breve frase, o un gruppo sintattico
intimamente unito (per es., un sostantivo e il suo attributo, il predicato e il
soggetto o il compl. oggetto), tra la fine di un verso e l’inizio del verso
successivo, operando così una legatura metrica che ha lo scopo di rendere più
ricco e sostenuto il ritmo dei versi, spec. di quelli brevi, oppure di dare un
rilievo a una parola particolarmente significativa, isolandola; In italiano,
sono stati talora usati con lo stesso senso i termini inarcatura e accavalciamento.
Inarcatura: Incurvatura ad arco: l’i.
di una struttura a volta; l’i. delle sopracciglia, accavalciatura dal fr. ant.
achevalchier, der. di chevalchier «cavalcare»] (io accavàlcio, ecc.). – Stare
sopra una cosa a cavalcioni, come stando a cavallo: a. una seggiola, un
muretto; a. le gambe, [...] metterle una sopra l’altra (più
com. accavallare); estens., letter.: un piccolo ponticello accavalcia il
torrente.
[5] Rino
Mele, I dolorosi discorsi, Sottotraccia, 2003.
[6]
Mario Santagostini, Il manuale del poeta,
Mondadori, 1988.
[7]
Georges Perec, Specie di spazi, Bollati
Boringhieri,(Espèces d'espaces, 1974) trad. di Roberta Delbono, pag.19.
[8]
Mi piacciono molto le note a pie’ di pagina, anche se non ho niente di
particolare da precisare.
[9]
Umberto Eco , Sugli specchi e altri saggi,
Bompiani, 1985.
[10] Paolo Dainotti, Word Order and Expressiveness in the
"Aeneid", translated by: Ailsa Campbell, De Gruyter, 2015.
[11]
Alonso distingue tra enjambement “aspro e spezzato” o “soave” specificando che
nell’enjambement aspro il senso delle parole «si prolunga da un verso all’altro
ma poi, nel secondo (…) improvvisamente si interrompe» mentre in quello soave
«continua senza interruzioni fino alla fine del secondo»; anche Hollander evoca
un “hardness and softness of enjambements”. Dàmaso Alonso, Saggio di metodi e limiti stilistici, Il Mulino, 1965.
[12]
Costanzo di Girolamo, Teoria e prassi
della versificazione, Il mulino, 1976.
[13]
Si osservi che Lacan rilegge l'opera sadiana, in particolare La filosofia nel boudoir testo scritto
dal Marchese De Sade otto anni dopo la Critica della ragion pratica kantiana. J.
Lacan, Kant con Sade, in Scritti, Vol. II, Einaudi, p. 765.
[14]
AA.VV., “Per Edoardo Sanguineti: good luck (and look)”, a cura di Pietropaoli,
Edizioni Scientifiche Italiane, 2002 (poi ripubblicato in “I dolorosi
discorsi”, Sottotraccia 2003). Qui appresso il testo integrale: http://www.cronachesalerno.it/accecarsi/
[15] Georges Perec, op.cit. pag.103.
[16]
Elvio Fachinelli, Claustrofilia,
Adelphi, 1983.
[17]
Gérard Genette, Soglie: i dintorni del
testo, a cura di Camilla Maria Cederna, Einaudi, 1989,
(ed. orig. Seuils;
Paris, Seuil, 1987).
[18] Georges Perec, op.cit., pag.107.
[19] Georges Perec, op.cit., pag.110.
[21]
Giovanni Cacciavillani, Il pensiero
senziente. Per un'estetica psicoanalitica kleiniana, Panozzo editore, 2012.
[22]
… ingaggiava sterratori e scarriolanti
per iniziare lo scavo dei canali di scolo (Bacchelli). Ammetto che le facies macilente di Geoges Perec,
Edoardo Sanguineti e Rino Mele, in versione anabolizzata,
fanno un po’ ridere.
[23] Georges Perec, op.cit., p.111.
[24] Georges Perec, op.cit., p. 12.
§
Edoardo Sanguineti
Genova - 9 dicembre 1930 - 18 maggio 2010
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